S/PAESAMENTI STABILI

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Non è sbagliato pensare in grande: Il brand “ Costiera Amalfitana”

La primavera si è presentata puntuale in Costiera Amalfitana, malgrado tutto. In questi giorni cristallini viene spontaneo scorrere con lo sguardo il paesaggio e per un attimo ci si può anche dimenticare che anche quest’anno ci è negato il piacere di godere in piena libertà la sua bellezza dirompente, soprattutto dopo tanta pioggia che l’ha ferita, spesso profondamente, mostrando di questo angolo d’Italia anche la fragilità.

Bellezza e Fragilità: due parole che spesso si accompagnano quando si parla della Costiera. Sono due parole dal senso inequivocabile: la prima si addice senza ombra di dubbio a questa terra che è allo stesso tempo selvaggia e morbida, esplosiva e discreta, la seconda rappresenta la presunzione ottusa dell’uomo che non ne ha cura credendo stoltamente che la Bellezza sia eterna.

S’illude che la grazia di questa terra gli sia semplicemente dovuta senza dare in cambio nulla. Eppure un tempo non è stato così. I nostri antenati infatti hanno forse avuto un approccio più consapevole sebbene vivere qui abbia comportato scavare, strappare fazzoletti di terra alla roccia, conoscere il vento e il mare e in qualche modo difendersi e sopravvivere creando un’economia adeguata alla sua aspra conformazione. Eppure nonostante il territorio impervio sono stati capaci di consegnarci un’eredità dal valore inestimabile, opere di pregio di grande inventiva ed utilità, architetture che si sposano alla perfezione con il paesaggio, una rete di sentieri, la geometria dei terrazzamenti sui crinali delle colline ed una strada costiera unica la mondo, solo per citarne alcune, che unite alla sua natura mediterranea ne hanno determinato la unicità. È stata proprio la strada che collega i piccoli paesi che ha poi aperto il varco all’odierna vocazione turistica dei loro abitanti.

Sebbene già apprezzata dai Romani per il suo clima e per la morfologia della sua costa che rendeva questi luoghi un posto di villeggiatura ameno e sicuro, in epoca più moderna la Costiera Amalfitana divenne con il Gran Tour una affascinante e ambita meta dove soggiornare, apprezzare e spesso innamorarsi del “dolce vivere”  del Sud d’Italia.  

Le piccole locande e  le case nobiliari che accolsero i viaggiatori di allora col passare degli anni sono divenute alberghi, le trattorie si sono trasformate in ristoranti, le mescite di vino in bar e il  successivo crescente flusso turistico ha creato un’economia basata soprattutto sull’accoglienza attraverso la quale venivano esaltati sia il naturale senso di ospitalità retaggio di una cultura semplice, dignitosa e aperta sia le molteplici attrattive che la costiera offriva: clima, paesaggio, cibo, cultura, artigianato, tutto racchiuso in pochi chilometri.  Piccoli paesi arroccati e immersi nella macchia mediterranea che nel tempo hanno dato vita a quello che oggi potremmo definire il brand “COSTIERA AMALFITANA” conosciuto e apprezzato in tutto il mondo.

L’evoluzione della Costiera in un “brand” di successo oltre ai vantaggi di tipo economico ha implicato, e implica tuttora, una continua opera di ammodernamento, come è giusto che sia. Per ovviare alle accresciute esigenze e per soddisfare e migliorare la qualità di vita degli abitanti e quella dei soggiorni dei turisti che arrivano sempre più numerosi si sono incrementate condotte idriche, reti elettriche e di comunicazione e fognarie, e laddove possibile si sono costruite strade di collegamento, e porti per coloro che vogliono goderne la bellezza dal mare. La Costiera come ogni cosa ha pagato certamente il suo debito alla modernità lasciandosi alle spalle a volte la sua genuinità e la compiutezza della sua semplicità ma riacciuffandole in parte con l’istintivo senso creativo che la contraddistingue, e se a volte la nostalgia per ciò che era un tempo tuttora riaffiora, è anche vero che a rimanere sordi, ciechi e fermi si rischia di perdere il proprio appuntamento col futuro.

Altra cosa è  però mancare il futuro facendo scelte inappropriate, scelte spesso figlie più della politica che di una visione.

In questi giorni il nostro Presidente di Regione ha annunciato una serie di progetti a dir poco avveniristici che dovrebbero, a detta degli addetti, migliorare la viabilità e i collegamenti da e per la Costiera Amalfitana dando un’ulteriore spinta al turismo. Gallerie(Minori- Maiori) , funivie (Minori- Ravello) (Angri-Tramonti- Ravello), scale mobili, piste pedonali a sbalzo (Castiglione- Amalfi) solo per citarne alcune, a cui va ad aggiungersi anche il progetto del megadepuratore consortile a Maiori che, a dispetto della sua chiara identità costierasca, diventerebbe non solo il polo dei rifiuti solidi di gran parte della Costiera, ma anche quello delle acque reflue. È una lista così lunga e futuristica che viene da chiedersi “a quando il teletrasporto?”

Ma se solo provassimo ad immaginare il profilo delle colline interrotte da piloni e cavi, se solo provassimo ad intravedere con la mente la triste transumanza aerea che nulla godrebbe del paesaggio se non un fugace e asettico tragitto lineare, e se solo immaginassimo la triste oscurità sotterranea dei trafori, se solo immaginassimo la piccola oasi naturale che era e che potrebbe ancora essere il Demanio di Maiori, luogo demandato ad accogliere un inspiegabile depuratore consortile, ecco se solo provassimo ad usare non solo la logica dei numeri ma anche l’immaginazione verrebbe da chiedersi “Perché?”

Perché se invece tante altre cose avrebbero una priorità essenziale per presentarsi all’altezza del futuro che tutti amiamo sognare? Perché non rivolgere lo sforzo di una progettazione affrontando con conoscenza critica ma efficace le problematiche sulla viabilità e quelle ambientali a protezione del territorio e del mare? Perché disperdere tempo e denaro perseguendo con cecità programmi che “ curano la malattia uccidendo il malato”?

Ma l’atavica bulimia della politica sembra concentrarsi più sull’abbuffata di progetti imponenti e grandiosi da affastellare in inaccessibili uffici o da iniziare per poi, il più delle volte, abbandonare non senza danni irrimediabili, piuttosto che mettere a fuoco la semplice realtà. E l’odierna realtà ha due importanti componenti che sembra vengano ignorate e che invece costituiscono un punto focale su cui porre le basi per il futuro turistico della Costiera.

Bellezza e Fragilità, l’una da preservare ed esaltare, l’altra da curare. 

È innegabile che il flusso turistico nazionale e internazionale degli ultimi anni abbia messo in evidenza alcune criticità che esigono di essere affrontate affinché la fragilità non prevalga sulla Bellezza. 

Il brand “COSTIERA AMALFITANA” è cresciuto velocemente, non altrettanto i servizi necessari ad accoglierne il flusso e soprattutto il traffico su ruote ha spesso raggiunto livelli insostenibili dalla stretta strada costiera. Ma nulla negli anni è stato fatto per limitarne l’impatto negativo sia sul turismo che sul quotidiano. Si sarebbe potuto allargarne, laddove possibile, la carreggiata, evitando però i soliti tempi biblici per i dovuti lavori, affrontare con severità e fermezza il problema delle auto in sosta spesso causa principale di incidenti e disagi, creare aree di parcheggio, incrementare il servizio pubblico con navette di collegamento, attualmente insufficiente anche nel periodo invernale, incrementare le vie del mare, mettere in sicurezza un’ importante arteria come la Chiunzi- Ravello, che rappresenterebbe uno snodo essenziale per alleggerire la Statale costiera. Nulla è stato fatto anche per la ordinaria manutenzione della Statale stessa e della via interna alternativa a quella costiera che la collega alle Autostrade, la Chiunzi, dove spazzatura, erbacce nonché il manto stradale usurato e le pessime condizioni di ringhiere e muretti a secco fanno da miserabile cornice, e dove solo la bellezza del panorama ne attenua lo stato indecente in cui versano alcuni tratti. E nulla è stato fatto per arrivare ad una seria regolamentazione del flusso di autobus e auto nei mesi estivi in grado di andare incontro sia alle esigenze dei singoli comparti turistici sia ad allentarne il carico sulla statale. Nulla è stato fatto per contenere la fragilità in cui versa il territorio che la sovrasta minandone la sicurezza. Incendi dolosi rimasti impuniti, disboscamenti, abbandono dell’attività agricola collinare non adeguatamente sostenuta e cambiamenti climatici ne hanno accresciuta la debolezza e ora più che mai ci sarebbe bisogno di una seria progettazione per una sua messa in sicurezza, prevenendo e non subendo i rischi e il disagio di frane sempre più frequenti che minano e spesso stravolgono, come è accaduto recentemente, le normali attività quotidiane e lavorative.

Nulla si è fatto se non concepire progetti faraonici che se realizzati contribuirebbero ad un ulteriore abbandono e disinteresse verso la tutela e la salvaguardia di questa terra per attuare invece stravolgimenti ben lontani dalla idilliaca immagine fiorita proiettata dai moderni rendering. Ben conosciamo infatti le condizioni in cui versano gran parte dell’anno il verde e gli arredi pubblici, le strade interne dei paesi e delle loro frazioni nonché le aree demaniali come spiagge e letti fluviali.

Alla modernità proposta da questa progettazione si accompagna una narrazione spesso distorta e che trova i suoi ruffiani appigli nei temi più in voga ( ambientalismo, sostenibilità, cambiamento etc..) a cui viene contrapposta, presentandola come immobilismo reazionario,  quella di chi  questa stessa tematica l’applica alla realtà senza però dimenticare la valenza identitaria del territorio.

Ma se  accogliere la modernità costituisce l’unico snodo per affrontare il futuro allora perché ignorare  le altresì  moderne regole e strategie di marketing  e chiedersi: cosa ha reso la Costiera Amalfitana un marchio spendibile in tutto il mondo e in innumerevoli settori se non il suo essere Costiera Amalfitana? E perché allora non puntare su una modernità capace di sfruttare i suoi limiti trasformandoli in qualità e le sue imperfezioni in pregi? Perché ignorare che chi sceglie o sogna una vacanza in Costiera lo fa attraverso un immaginario fatto di vicoli e scalinate fiorite, di buon cibo,  di un paesaggio incontaminato, di sentieri fra limoni, di un’accoglienza semplice e  al tempo stesso sofisticata  nonché di cultura?

Ma altro sembrano ignorare i nostri politici e le nostre amministrazioni, qualcosa di attuale ed estremamente importante, a dimostrazione del loro preoccupante scollamento dalla realtà.

La recente pandemia ha colpito, così come ovunque, anche la Costiera, mostrando come un’economia esclusivamente turistica e stagionale possa essere intaccata, perfino annientata in qualsiasi momento. Dopo una stagione, quella del 2020, segnata dallo stravolgimento delle nostre vite e delle attività ed un’altra che si prospetta essere ugualmente problematica sarà quasi inevitabile considerare che il turismo subirà grossi cambiamenti. Probabilmente non lo sarà in termini di numeri poiché il viaggio, l’avventura, la scoperta sono parte stessa dell’essere umano, ma certamente in futuro lo sarà in termini di scelte.

La prima sarà privilegiare località in grado di offrire un servizio medico sanitario adeguato, e la Costiera col suo unico polo sanitario a coprire una popolazione che in alta stagione raggiunge livelli molto al di sopra di quelli normali, avrebbe il suo primo punto a sfavore. La seconda coinvolgerà la vivibilità: spiagge stracolme, affollamenti, la presenza crescente di forme d’inquinamento sia acustico che ambientale saranno opzioni deterrenti.

Il flusso turistico futuro trasformerà i turisti in viaggiatori laddove il viaggio sarà inteso come conoscenza, scambio, arricchimento culturale, sicurezza e qualità dell’accoglienza.

I futuri viaggiatori, presumibilmente, prediligeranno agli eccessi il benessere fisico e quello dell’anima. E la Costiera Amalfitana nel suo essere Costiera Amalfitana, con le sue peculiarità , con il suo polmone verde e perfino con la sua aspra morfologia che la rende, con i suoi sentieri, una sorta d’immensa palestra a cielo aperto, con le sue segrete oasi di pace, con la sua cucina mediterranea, con le sue piccole spiagge, col suo tessuto culturale, e col suo enorme potenziale per una stagionalità prolungata e non concentrata nei pochi mesi estivi, potrebbe presentarsi all’appuntamento col futuro con tutte le carte in regola se solo abbracciasse una visione che ne corregga le attuali carenze e non una che la stravolga continuando ad ignorarle.

Non è sbagliato pensare in grande, così come sembrano ben fare i nostri politici e amministratori, ma stupisce che lo sforzo venga indirizzato verso opere che rischiano di snaturare l’identità di un territorio e la sua singolarità, qualità che da semplice luogo di villeggiatura l’hanno portato ad essere un marchio che tutti ci invidiano. E stupisce che tali mastodontici progetti non diano invece la priorità alla tutela dei luoghi e al benessere dei loro abitanti, una priorità che ne amplierebbe gli orizzonti sia fisici che culturali dando un notevole contributo alla crescita di entrambi.

Ben vengano progetti tesi al miglioramento nel rispetto del territorio, e ben venga la capacità di comprendere in tempo i cambi di direzione che il futuro assume a volte. Un anno e mezzo fa ci sembrava impossibile che il mondo potesse fermarsi e invece è successo, il futuro immaginato ha subito una sterzata repentina e imprevedibile, e ciò che verrà dopo probabilmente sarà una sorta di punto e accapo e “vincerà” chi sarà capace di farsi trovare pronto nell’intuirne le nuove variabili. Perseverare dunque nel credere che ciò che valeva prima varrà anche in futuro potrebbe rivelarsi la scelta peggiore.

La Natura ci insegna che il destino di una specie dipende dalla sua capacità di capire e adattarsi ai cambiamenti, e questo vale anche per le imprese e di conseguenza anche per quella turistica, così come i grandi uomini si distinguono per le grandi idee ma anche per la capacità di riconoscere i propri errori e correggerli in tempo. Resta da chiedersi dunque quale destino, quale visione i nostri politici e le nostre amministrazioni abbiano in serbo per il futuro della Costiera Amalfitana, se sia quello che ne enfatizzi ulteriormente la Bellezza e ne riduca finalmente la fragilità, condizioni essenziali per la sua sopravvivenza, o se invece la appiattisca tristemente in uno che la renda uno dei tanti luna-park, col medesimo carico di malinconia nel momento in cui si spengono le luci, lasciando come unica prospettiva quella di continuare a pensare che il futuro sia Futuro altrove.

Barriere Architettoniche: Chiaro-Scuro

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Barriere Architettoniche: Chiaro-Scuro

La Costiera Amalfitana è un vero concentrato di barriere architettoniche. La sua stessa morfologia ha determinata l’inevitabilità di questa concentrazione, conferendo alla sua architettura l’aspetto che, sebbene in alcuni casi sia stato fortemente modificato dalla modernità, continua a lasciare senza fiato.
Gradini, scalinate, gradoni intersecano e collegano accessi ad abitazioni e giardini e piccoli agglomerati di case, per poi dipanarsi sulle colline creando vie fra un paese ed un altro, le uniche possibili quando ancora la via costiera non era stata realizzata, la quale per lunghi anni ha rappresentata l’ultima mastodontica opera eseguita affinché la Costiera Amalfitana potesse entrare definitivamente nell’era moderna.
Oggi, la particolare attenzione che si rivolge agli innumerevoli disagi che comporta questa natura costierasca fatta di salite e discese ha spinto a riconsiderare la progettazione di nuove strade di collegamento più agevoli per risolvere le mille problematiche legate a questi elementi architettonici.
La scalinata della foto costituiva un tempo la via di accesso al Cimitero di Minori, proseguiva poi in un’alternanza di scale più o meno sconnesse, più o meno ripide fin su, fino a Ravello in un percorso di giardini, case rurali e chiesette medievali semi abbandonate.
Per il rispetto dell’estremo saluto ai morti questa ripida scala aveva una sua dignità: povera e solenne ha raccolto negli anni pianti, preghiere, fiori, fatica e suppongo anche qualche sommessa bestemmia. Almeno così è stato finché una strada carrabile alternativa non l’ha soppiantata rendendo cortei funebri e visite ai morti di gran lunga più agevoli, nonché più lieve il vivere quotidiano di tanti.
Oggi la ritrovo dunque così: dismessa e mortificata nel suo abbandono.
Eppure nella sua ardita e armoniosa e morbida curva verso l’alto l’ho sempre giudicata un’opera architettonica di gran valore, con quel suo naturale e rispettoso procedere dentro lo spuntone di roccia. Ė una mirabile intuizione progettata e realizzata egregiamente da chissà chi, oggi svilita da rappezzi precari e dall’immondizia.
Mi chiedo allora se le migliorie, se l’abbattimento delle barriere architettoniche implichino necessariamente lo snaturare e l’abbandonare un patrimonio culturale, o se nel risolvere le une non si possa nel contempo preservare l’altro e non solo per una questione d’immagine, ma perché, se è vero che la modernità ci viene incontro per ovviare alle mancanze del passato, è anche vero che la dignità di un popolo si misura anche sulla sua capacità di essere custodi del passato…

La danza dell’anima di Rudolph Nureyev

Da bambina, forse come ogni bambina, ci fu per il tempo in cui sognai di diventare una ballerina, un sogno irrealizzabile soprattutto all’epoca quando la scuola più vicina era a più di sessanta chilometri, e non era certo il tempo in cui premurosi papà o mamme si adoperavano a scorrazzare i propri pargoli da una palestra alla piscina, dal corso di nuoto al corso di arabo e via dicendo. Qui, nei nostri piccoli paesi, noi ragazzini si arrivava fin dove si poteva fare affidamento sulle nostre gambe e sulle brevi strade sicure e tranquille. Così ben presto abbandonai i volteggi goffi nel corridoio e mi ritrovai adolescente e minuta a correre da un punto all’altro di un campetto di basket dove alla leggiadria della morte del cigno si sostituì la cavalcata mascolina verso il canestro.
Forse fu per le circostanze, o forse più semplicemente me ne mancò la determinazione o quel sogno era soltanto pura infatuazione infantile e non vero amore e passione, ma non diventai la ballerina delle mie fantasie.

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Ma se io non sono appartenuta alla danza lo è stata la Costiera, fin da quando Léonide Massine in tour al Teatro San Carlo, dopo essere stato in visita a Positano dell’amico scrittore Mikhail Nikolaevic Semenov, decise di acquistare nel 1924 quella che era poco più che una manciata di scogli nel tratto di mare fra Positano e Capri: l’arcipelago de Li Galli.
Lì vi costruì la sua villa rifugio, ristrutturata in seguito da Le Corbusier. Perfettamente mimetizzata nei volumi della roccia la villa era quasi impercettibile allo sguardo e la sua presenza-assenza si confondeva al mito che a quegli scogli si accompagnava e ne accresceva il mistero.
Massine sognava di rendere l’isola un centro della danza che radunasse danzatori coreografi e musicisti, farne un luogo dell’arte immerso nella natura selvaggia fra cielo e mare, ma mille furono le difficoltà a cui andò incontro. Gli anfiteatri ricreati nella roccia svanivano, distrutti dalla furia del mare, e il suo progetto non ebbe mai i risultati sperati. Rimase la splendida villa, l’incantevole belvedere, ma dieci anni dopo sua morte le troppe spese da sostenere costrinsero il figlio Lorca a mettere in vendita la proprietà.

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Fu allora che Rudolph Nureyev, ospite a Positano per il premio proprio a Massine dedicato, anch’egli rapito dalla bellezza dell’isola e dalla magia che Massine le aveva impresso, decise di acquistare l’isola sperando di potervi realizzare il sogno che il suo maestro non aveva potuto concretizzare.
Meno schivo di Massine, Nureyev animò l’isola e Positano con la sua presenza e la vitalità del suo genio, pur non mancando  di isolarsi da tutto  per danzare nella quiete della sala da ballo che nella villa aveva attrezzata.
Finché gli fu possibile trascorse a Li Galli il mese di agosto, lontano dai riflettori, un appuntamento per lui irrinunciabile con quello scarno scoglio che la mitologia aveva consacrato come la terra delle Sirene, tanto che si racconta che l’ultima volta che lasciò l’isola, sapendo che la terribile malattia non gli avrebbe concesso di rivederla, baciò più volte la roccia: un gesto di amore vero, una danza dell’anima che distingue i grandi, e chi conserva la grazia dell’innocenza.

Io in quegli anni non frequentavo Positano, e Li Galli era solo il fascino di un’isola che si ergeva da un mare profondo  che  guardavo  a volte dalla barca, Nureyev non l’ho mai incontrato né visto sui fragili moletti di legno, ma c’era intorno a quel blocco di roccia  come  un modo infinito che ne disegnava nella mente la presenza, e mi auguro che chi ora abita l’isola  la custodisca.
Vent’anni sono trascorsi oggi dalla sua morte, volevo ricordarlo.

Jazz on the Coast: Dado Moroni Trio

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Se la musica è nell’anima del Brasile, così come è anche in quella della nostra terra, allora è più facile comprendere perché Oscar Niemeyer nel concepire l’Auditorium di Ravello abbia pensato ad un’opera che potesse contenerla al meglio e che con la terra fosse in comunicazione.
Non v’è dunque modo migliore di proseguire in questa sua direzione che cercare di mantenere ben saldo il connubio di tutti questi elementi: architettura musica e paesaggio
Ed è con questo spirito che Jazz on the Coast, dopo aver mancato il suo appuntamento estivo ( i motivi ormai sono divenuti un leit-motiv…noto a tutti) si presenta in versione natalizia. Lo fa con un evento che rispecchia lo stile e la qualità con cui si è sempre contraddistinto.
Dopo le edizioni tenutesi a Minori, luogo di nascita della manifestazione, e dopo un paio di edizioni migrate nella vicina Maiori, dopo aver diffuso le note di un jazz d’autore nella suggestione delle varie location (penso ai costoni di roccia a fare da cassa di risonanza dei teatri all’aperto di Minori, all’anfiteatro naturale del porto di Maiori, fino a quella incantevole della Villa Romana della scorsa edizione) Jazz on the Coast si reinventa a Ravello dove il 27 dicembre l’Auditorium “ Oscar Niemeyer” accoglierà Dado Moroni Trio.
Un unico evento di una diciottesima edizione che andava fatta, e con cui ancora una volta Jazz on the Coast, in questa sua veste migrante, rivela la sua capacità sia di interpretare al meglio il senso della musica sia di dimostrare la propria visione ampia e lungimirante.
Infatti se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, è vero anche che passione tenacia e intelligenza possono trasformarli in occasioni non solo da cogliere ma anche a cui fare riferimento per le programmazioni future. La musica, l’arte tutta è movimento e proporsi in più ambiti è tutto sommato molto positivo.
È una direzione meno campanilistica di quella con cui qui solitamente vengono considerati e strutturati i vari eventi i quali spesso si sovrappongono o,  inutilmente sovraccaricati,  finiscono col rendere i paesi della Costiera più che  teatri culturali  supermercati  da cui si esce altrettanto spesso con qualcosa che in fin dei conti non serviva affatto.
Un solo evento dunque per questa manifestazione  ma mantenendo sempre alta la qualità, un unico evento in una insolita versione invernale e in un nuovo scenario che sono certa vi stupirà, un unico evento che più che sottolineare le difficoltà  mi  auguro possa rappresentare invece la base per un rilancio e per nuove vie di collaborazione.

 

DADO  MORONI

Nato nel 1962 a Genova,è uno dei pianisti jazz italiani più richiesti in Europa e in america.  Grazie ai dischi dei suoi genitori si innamora del jazz alla tenera età di quattro anni ed inizia a suonare il piano. A soli diciassette anni registra il suo primo lavoro discografico con Tullio De Piscopo ed il bassista statunitense Julius Farmer. Oggi può vantare il prestigio di essere uno dei musicisti italiani più stimati negli Stati Uniti (Ron Carter lo considera uno dei suoi pianisti preferiti).Nel 1987 viene chiamato,unico europeo, insieme ai pianisti Hank Jones,Barry Harris e Roland Hanna,a far parte della giuria del premio internazionale pianistico Thelonious Monk,svoltosi a Washington.Nel 1988 effettua una tournèe in sette paesi africani con il sestetto di Alvin Queen per conto del Dipartimento di Stato americano.

 In Italia e all’estero vanta una serie infinita di collaborazioni, tra le quali spiccano: Chet Baker, Freddie Hubbard, Clark Terry, Billy Cobham, Jimmy Owens,Tom Harrell.

E’ impressionante la lista dei festival ai quali ha partecipato: non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Asia, collaborando con artisti di fama mondiale, tra i quali: Phil Woods, Tony Scott, Wynton Marsalis, Tom Harrel, Johnny Griffin.Niels-Henning Oersted Pedersen, Freddie Hubbard, Harry “Sweets” Edison, Ron Carter e molti altri ancora.

Da ricordare la collaborazione con due gruppi storici: la “Paris Reunion” (con Joe Henderson, Curtis Fuller, Woody Shaw, Johnny Griffin e Jimmy Woode) e la “Mingus Dynasty” (con Danny Richmond, John Handy, Jinny Knepper, Craig Handy e Reggie Johnson).

A tutt’oggi ha  inciso oltre 50 Cd per importanti etichette discografiche quali Sony,Concorde,Contemporary Telarc,Enja,TCB Record.

Ad accompagnare Dado Moroni due fra i migliori musicisti italiani :

ARES TAVOLAZZI

Nel 1973 entra a far parte del gruppo storico d’avanguardia degli AREA con i quali registra oltre dieci LP e partecipa a  importanti manifestazioni quali  il “Festival de l’Humanité” a Parigi,  il “Festival do Avante” a Lisbona e il “Festival della Gioventù a Cuba.

 Durante lo stesso periodo comincia a suonare jazz alle jam-session del “Capolinea” a Milano. Nel 1982, trascorre alcuni mesi a New York e  questa esperienza lo porterà definitivamente ad occuparsi di improvvisazione.

Al ritorno dagli Stati Uniti, partecipa ad una tournèe italiana con l’orchestra di GIl Evans, in cui suonano Steve Lacy, Ray Anderson, Lew Soloff ed altri famosi musicisti. Negli anni 1983-84 é in tournèe con Kenny  Wheeler.

 Per tre anni consecutivi (1984-85-86) è primo in una speciale classifica dei bassisti indetta da “Guitar Club”(una pubblicazione specializzata).

Nel 1987 riceve a Ferrara il premio “A. WILLAERT” come migliore musicista dell’anno.

Fra le più importanti collaborazioni: Jimmy Owens, Sam Rivers, Lee  Konitz, Gary Bartz, Bruce Forman,George Cables,Ray Mantilla Mike Melillo,Elliott Zigmund,Claudio Roditi

FABRIZIO SFERRA

Inizia l’attività di batterista di jazz sul finire degli anni ’70 e si afferma man mano sulla scena nazionale collaborando con prestigiosi musicisti italiani e stranieri, fra i quali :  Enrico Pieranunzi, Massimo Urbani, Antonello Salis, Maurizio Giammarco, Pietro Tonolo, Rita Marcotulli, Stefano Battaglia, Chet Baker, Lee Konitz, Mal Waldron, Kenny Wheeler, Toots Thielemans, Paul Bley.

   Significativa l’esperienza dall’83 al ’92 con il pianista Enrico Pieranunzi ed il contrabassista Enzo Pietropaoli ; il loro “Space Jazz Trio” si aggiudica fra l’altro, nell’88 e nell’89, i referendum della critica indetti dalla rivista ” Musica Jazz “, rispettivamente come miglior disco e migliore formazione dell’anno.

   A distanza di dieci anni, nel ’98 e nel ’99, e poi ancora nel 2001 e nel 2003, gli stessi referendum vanno al ” Doctor 3 “, trio creato da Sferra nel ’97, con Danilo Rea al piano e lo stesso Pietropaoli al basso, gruppo che rappresenta fra l’altro, nel gennaio del 2001, il jazz italiano nella storica ” Town Hall ” di New York.

   In tre decenni di attività, molti i festival internazionali ai quali prende parte, fra i quali : Umbria Jazz, Clusone, Ravenna, Roma, Berlino, Francoforte, Colonia, Madrid, Cophenaghen, Nantes, Singapore, Nuova Dheli, Pechino, Chicago, LosAngeles, S.Francisco, Santiago, San Paolo, Buenos Aires.

Oscar Niemeyer [(Rio de Janeiro 15/12/1907 – Rio de Janeiro- 5/12/ 2012)

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Il legame fra Oscar Niemeyer e la mia Costiera non ha avuto un percorso facile. È stato come uno di quegli amori contrastati che per essere suggellati hanno dovuto attraversare prima mille peripezie, e anche una volta raggiunto l’agognato compimento, i conflitti per definirne la gestione, le appetibili potenzialità di utilizzo  che ne fanno un boccone per troppe bocche continuano ancora oggi a pesare fin quasi a privarlo di un senso di finitezza.
La realizzazione dell’Auditorium a Ravello è stata vissuta dalla maggior parte degli abitanti e di alcuni organismi tutelari del territorio come un tradimento alla tradizionale architettura della Costiera (1), e con il sarcasmo che contraddistingue i costaioli, che è pronto a ravvivarsi ogni volta che essi devono rapportarsi con qualsiasi nuovo elemento, non sono mancate colorite opposizioni per impedire o quanto meno contrastare che il progetto si concretizzasse.
Oggi l’Auditorium “Oscar Niemeyer”, che lo si ami o meno, rappresenta una delle opere di architettura moderna che arricchiscono il patrimonio del Sud, un Sud che troppo spesso si barrica dietro il dito della tradizione per lamentare poi l’immobilità della sua condizione.
Io, nonostante il mio forte legame con le spigolose e ardite linee con l’antica architettura presente in tutta la Costiera, ho provato fin dall’inizio una certa empatia col progetto. Ho visto le sue forme plasmarsi mano a mano. Quel “ rotolone scottex”, uno dei tanti appellativi negativi attribuitogli, dal paese dove vivo mi appariva come la cresta di un’onda che dall’alto collinare di Ravello cercava di restituirsi al mare. A lungo poi, a lavori quasi ultimati, nelle giornate di sole l’ho visto brillare d’argento prima che il bianco candido ne rifinisse l’aspetto definitivo della cupola legandola al nostro oriente.
Oscar Niemeyer non venne mai a Ravello, ma se oggi le controversie che hanno accompagnato il suo progetto sono in parte sedate è  sia perché l’innegabile creatività della sua visione   sia  perché lo studio accurato, benché non fatto sul campo, della topografia dei luoghi dove sarebbe sorta l’opera, non erano dopotutto errati né tantomeno non rispettosi della nostra storia, tanto che oggi è difficile negare la drammaticità spettacolare con cui l’Auditorium s’inserisce nel contesto della Costiera.

Difficile infatti è non essere colpiti dal modo in cui l’ampio spiazzale apre il respiro al degradare delle colline della costa sottostante, e come quelle stesse si ricompongono, quasi fossero dipinte da Cézanne, nell’ampia vetrata su cui curva la cupola che s’inclina scivolando verso il pendio, vetrata che si raddoppia all’interno come un enorme occhio azzurro di mare e di cielo dalla femminile sensualità.
Un’opera che da sé varrebbe un viaggio, quello che Oscar Niemeyer non fece mai se non col genio della sua arte.

(1) http://www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getcomunicato&id=3915