S/PAESAMENTI STABILI

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La danza dell’anima di Rudolph Nureyev

Da bambina, forse come ogni bambina, ci fu per il tempo in cui sognai di diventare una ballerina, un sogno irrealizzabile soprattutto all’epoca quando la scuola più vicina era a più di sessanta chilometri, e non era certo il tempo in cui premurosi papà o mamme si adoperavano a scorrazzare i propri pargoli da una palestra alla piscina, dal corso di nuoto al corso di arabo e via dicendo. Qui, nei nostri piccoli paesi, noi ragazzini si arrivava fin dove si poteva fare affidamento sulle nostre gambe e sulle brevi strade sicure e tranquille. Così ben presto abbandonai i volteggi goffi nel corridoio e mi ritrovai adolescente e minuta a correre da un punto all’altro di un campetto di basket dove alla leggiadria della morte del cigno si sostituì la cavalcata mascolina verso il canestro.
Forse fu per le circostanze, o forse più semplicemente me ne mancò la determinazione o quel sogno era soltanto pura infatuazione infantile e non vero amore e passione, ma non diventai la ballerina delle mie fantasie.

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Ma se io non sono appartenuta alla danza lo è stata la Costiera, fin da quando Léonide Massine in tour al Teatro San Carlo, dopo essere stato in visita a Positano dell’amico scrittore Mikhail Nikolaevic Semenov, decise di acquistare nel 1924 quella che era poco più che una manciata di scogli nel tratto di mare fra Positano e Capri: l’arcipelago de Li Galli.
Lì vi costruì la sua villa rifugio, ristrutturata in seguito da Le Corbusier. Perfettamente mimetizzata nei volumi della roccia la villa era quasi impercettibile allo sguardo e la sua presenza-assenza si confondeva al mito che a quegli scogli si accompagnava e ne accresceva il mistero.
Massine sognava di rendere l’isola un centro della danza che radunasse danzatori coreografi e musicisti, farne un luogo dell’arte immerso nella natura selvaggia fra cielo e mare, ma mille furono le difficoltà a cui andò incontro. Gli anfiteatri ricreati nella roccia svanivano, distrutti dalla furia del mare, e il suo progetto non ebbe mai i risultati sperati. Rimase la splendida villa, l’incantevole belvedere, ma dieci anni dopo sua morte le troppe spese da sostenere costrinsero il figlio Lorca a mettere in vendita la proprietà.

Nureyev

Fu allora che Rudolph Nureyev, ospite a Positano per il premio proprio a Massine dedicato, anch’egli rapito dalla bellezza dell’isola e dalla magia che Massine le aveva impresso, decise di acquistare l’isola sperando di potervi realizzare il sogno che il suo maestro non aveva potuto concretizzare.
Meno schivo di Massine, Nureyev animò l’isola e Positano con la sua presenza e la vitalità del suo genio, pur non mancando  di isolarsi da tutto  per danzare nella quiete della sala da ballo che nella villa aveva attrezzata.
Finché gli fu possibile trascorse a Li Galli il mese di agosto, lontano dai riflettori, un appuntamento per lui irrinunciabile con quello scarno scoglio che la mitologia aveva consacrato come la terra delle Sirene, tanto che si racconta che l’ultima volta che lasciò l’isola, sapendo che la terribile malattia non gli avrebbe concesso di rivederla, baciò più volte la roccia: un gesto di amore vero, una danza dell’anima che distingue i grandi, e chi conserva la grazia dell’innocenza.

Io in quegli anni non frequentavo Positano, e Li Galli era solo il fascino di un’isola che si ergeva da un mare profondo  che  guardavo  a volte dalla barca, Nureyev non l’ho mai incontrato né visto sui fragili moletti di legno, ma c’era intorno a quel blocco di roccia  come  un modo infinito che ne disegnava nella mente la presenza, e mi auguro che chi ora abita l’isola  la custodisca.
Vent’anni sono trascorsi oggi dalla sua morte, volevo ricordarlo.

Jazz on the Coast: Dado Moroni Trio

bozza jazz ravello

Se la musica è nell’anima del Brasile, così come è anche in quella della nostra terra, allora è più facile comprendere perché Oscar Niemeyer nel concepire l’Auditorium di Ravello abbia pensato ad un’opera che potesse contenerla al meglio e che con la terra fosse in comunicazione.
Non v’è dunque modo migliore di proseguire in questa sua direzione che cercare di mantenere ben saldo il connubio di tutti questi elementi: architettura musica e paesaggio
Ed è con questo spirito che Jazz on the Coast, dopo aver mancato il suo appuntamento estivo ( i motivi ormai sono divenuti un leit-motiv…noto a tutti) si presenta in versione natalizia. Lo fa con un evento che rispecchia lo stile e la qualità con cui si è sempre contraddistinto.
Dopo le edizioni tenutesi a Minori, luogo di nascita della manifestazione, e dopo un paio di edizioni migrate nella vicina Maiori, dopo aver diffuso le note di un jazz d’autore nella suggestione delle varie location (penso ai costoni di roccia a fare da cassa di risonanza dei teatri all’aperto di Minori, all’anfiteatro naturale del porto di Maiori, fino a quella incantevole della Villa Romana della scorsa edizione) Jazz on the Coast si reinventa a Ravello dove il 27 dicembre l’Auditorium “ Oscar Niemeyer” accoglierà Dado Moroni Trio.
Un unico evento di una diciottesima edizione che andava fatta, e con cui ancora una volta Jazz on the Coast, in questa sua veste migrante, rivela la sua capacità sia di interpretare al meglio il senso della musica sia di dimostrare la propria visione ampia e lungimirante.
Infatti se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, è vero anche che passione tenacia e intelligenza possono trasformarli in occasioni non solo da cogliere ma anche a cui fare riferimento per le programmazioni future. La musica, l’arte tutta è movimento e proporsi in più ambiti è tutto sommato molto positivo.
È una direzione meno campanilistica di quella con cui qui solitamente vengono considerati e strutturati i vari eventi i quali spesso si sovrappongono o,  inutilmente sovraccaricati,  finiscono col rendere i paesi della Costiera più che  teatri culturali  supermercati  da cui si esce altrettanto spesso con qualcosa che in fin dei conti non serviva affatto.
Un solo evento dunque per questa manifestazione  ma mantenendo sempre alta la qualità, un unico evento in una insolita versione invernale e in un nuovo scenario che sono certa vi stupirà, un unico evento che più che sottolineare le difficoltà  mi  auguro possa rappresentare invece la base per un rilancio e per nuove vie di collaborazione.

 

DADO  MORONI

Nato nel 1962 a Genova,è uno dei pianisti jazz italiani più richiesti in Europa e in america.  Grazie ai dischi dei suoi genitori si innamora del jazz alla tenera età di quattro anni ed inizia a suonare il piano. A soli diciassette anni registra il suo primo lavoro discografico con Tullio De Piscopo ed il bassista statunitense Julius Farmer. Oggi può vantare il prestigio di essere uno dei musicisti italiani più stimati negli Stati Uniti (Ron Carter lo considera uno dei suoi pianisti preferiti).Nel 1987 viene chiamato,unico europeo, insieme ai pianisti Hank Jones,Barry Harris e Roland Hanna,a far parte della giuria del premio internazionale pianistico Thelonious Monk,svoltosi a Washington.Nel 1988 effettua una tournèe in sette paesi africani con il sestetto di Alvin Queen per conto del Dipartimento di Stato americano.

 In Italia e all’estero vanta una serie infinita di collaborazioni, tra le quali spiccano: Chet Baker, Freddie Hubbard, Clark Terry, Billy Cobham, Jimmy Owens,Tom Harrell.

E’ impressionante la lista dei festival ai quali ha partecipato: non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Asia, collaborando con artisti di fama mondiale, tra i quali: Phil Woods, Tony Scott, Wynton Marsalis, Tom Harrel, Johnny Griffin.Niels-Henning Oersted Pedersen, Freddie Hubbard, Harry “Sweets” Edison, Ron Carter e molti altri ancora.

Da ricordare la collaborazione con due gruppi storici: la “Paris Reunion” (con Joe Henderson, Curtis Fuller, Woody Shaw, Johnny Griffin e Jimmy Woode) e la “Mingus Dynasty” (con Danny Richmond, John Handy, Jinny Knepper, Craig Handy e Reggie Johnson).

A tutt’oggi ha  inciso oltre 50 Cd per importanti etichette discografiche quali Sony,Concorde,Contemporary Telarc,Enja,TCB Record.

Ad accompagnare Dado Moroni due fra i migliori musicisti italiani :

ARES TAVOLAZZI

Nel 1973 entra a far parte del gruppo storico d’avanguardia degli AREA con i quali registra oltre dieci LP e partecipa a  importanti manifestazioni quali  il “Festival de l’Humanité” a Parigi,  il “Festival do Avante” a Lisbona e il “Festival della Gioventù a Cuba.

 Durante lo stesso periodo comincia a suonare jazz alle jam-session del “Capolinea” a Milano. Nel 1982, trascorre alcuni mesi a New York e  questa esperienza lo porterà definitivamente ad occuparsi di improvvisazione.

Al ritorno dagli Stati Uniti, partecipa ad una tournèe italiana con l’orchestra di GIl Evans, in cui suonano Steve Lacy, Ray Anderson, Lew Soloff ed altri famosi musicisti. Negli anni 1983-84 é in tournèe con Kenny  Wheeler.

 Per tre anni consecutivi (1984-85-86) è primo in una speciale classifica dei bassisti indetta da “Guitar Club”(una pubblicazione specializzata).

Nel 1987 riceve a Ferrara il premio “A. WILLAERT” come migliore musicista dell’anno.

Fra le più importanti collaborazioni: Jimmy Owens, Sam Rivers, Lee  Konitz, Gary Bartz, Bruce Forman,George Cables,Ray Mantilla Mike Melillo,Elliott Zigmund,Claudio Roditi

FABRIZIO SFERRA

Inizia l’attività di batterista di jazz sul finire degli anni ’70 e si afferma man mano sulla scena nazionale collaborando con prestigiosi musicisti italiani e stranieri, fra i quali :  Enrico Pieranunzi, Massimo Urbani, Antonello Salis, Maurizio Giammarco, Pietro Tonolo, Rita Marcotulli, Stefano Battaglia, Chet Baker, Lee Konitz, Mal Waldron, Kenny Wheeler, Toots Thielemans, Paul Bley.

   Significativa l’esperienza dall’83 al ’92 con il pianista Enrico Pieranunzi ed il contrabassista Enzo Pietropaoli ; il loro “Space Jazz Trio” si aggiudica fra l’altro, nell’88 e nell’89, i referendum della critica indetti dalla rivista ” Musica Jazz “, rispettivamente come miglior disco e migliore formazione dell’anno.

   A distanza di dieci anni, nel ’98 e nel ’99, e poi ancora nel 2001 e nel 2003, gli stessi referendum vanno al ” Doctor 3 “, trio creato da Sferra nel ’97, con Danilo Rea al piano e lo stesso Pietropaoli al basso, gruppo che rappresenta fra l’altro, nel gennaio del 2001, il jazz italiano nella storica ” Town Hall ” di New York.

   In tre decenni di attività, molti i festival internazionali ai quali prende parte, fra i quali : Umbria Jazz, Clusone, Ravenna, Roma, Berlino, Francoforte, Colonia, Madrid, Cophenaghen, Nantes, Singapore, Nuova Dheli, Pechino, Chicago, LosAngeles, S.Francisco, Santiago, San Paolo, Buenos Aires.

Oscar Niemeyer [(Rio de Janeiro 15/12/1907 – Rio de Janeiro- 5/12/ 2012)

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Il legame fra Oscar Niemeyer e la mia Costiera non ha avuto un percorso facile. È stato come uno di quegli amori contrastati che per essere suggellati hanno dovuto attraversare prima mille peripezie, e anche una volta raggiunto l’agognato compimento, i conflitti per definirne la gestione, le appetibili potenzialità di utilizzo  che ne fanno un boccone per troppe bocche continuano ancora oggi a pesare fin quasi a privarlo di un senso di finitezza.
La realizzazione dell’Auditorium a Ravello è stata vissuta dalla maggior parte degli abitanti e di alcuni organismi tutelari del territorio come un tradimento alla tradizionale architettura della Costiera (1), e con il sarcasmo che contraddistingue i costaioli, che è pronto a ravvivarsi ogni volta che essi devono rapportarsi con qualsiasi nuovo elemento, non sono mancate colorite opposizioni per impedire o quanto meno contrastare che il progetto si concretizzasse.
Oggi l’Auditorium “Oscar Niemeyer”, che lo si ami o meno, rappresenta una delle opere di architettura moderna che arricchiscono il patrimonio del Sud, un Sud che troppo spesso si barrica dietro il dito della tradizione per lamentare poi l’immobilità della sua condizione.
Io, nonostante il mio forte legame con le spigolose e ardite linee con l’antica architettura presente in tutta la Costiera, ho provato fin dall’inizio una certa empatia col progetto. Ho visto le sue forme plasmarsi mano a mano. Quel “ rotolone scottex”, uno dei tanti appellativi negativi attribuitogli, dal paese dove vivo mi appariva come la cresta di un’onda che dall’alto collinare di Ravello cercava di restituirsi al mare. A lungo poi, a lavori quasi ultimati, nelle giornate di sole l’ho visto brillare d’argento prima che il bianco candido ne rifinisse l’aspetto definitivo della cupola legandola al nostro oriente.
Oscar Niemeyer non venne mai a Ravello, ma se oggi le controversie che hanno accompagnato il suo progetto sono in parte sedate è  sia perché l’innegabile creatività della sua visione   sia  perché lo studio accurato, benché non fatto sul campo, della topografia dei luoghi dove sarebbe sorta l’opera, non erano dopotutto errati né tantomeno non rispettosi della nostra storia, tanto che oggi è difficile negare la drammaticità spettacolare con cui l’Auditorium s’inserisce nel contesto della Costiera.

Difficile infatti è non essere colpiti dal modo in cui l’ampio spiazzale apre il respiro al degradare delle colline della costa sottostante, e come quelle stesse si ricompongono, quasi fossero dipinte da Cézanne, nell’ampia vetrata su cui curva la cupola che s’inclina scivolando verso il pendio, vetrata che si raddoppia all’interno come un enorme occhio azzurro di mare e di cielo dalla femminile sensualità.
Un’opera che da sé varrebbe un viaggio, quello che Oscar Niemeyer non fece mai se non col genio della sua arte.

(1) http://www.patrimoniosos.it/rsol.php?op=getcomunicato&id=3915

Spazi Minimi

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Quando arrivi al paese lo vedi così, e pensi o sei un uccello poggiato alla ringhiera da cui lo stai guardando, o sei morto, e non per quella vecchia storia della bellezza che sempre accompagna questi luoghi, ma perché sei come una anima persa, un’ombra che volteggia lo sguardo su quel vuoto inaspettato.
Il paese lo vedi così, dall’alto, ma non tanto in alto, e te ne accorgi dopo quando metti ben a fuoco la piazza, la chiesa, le case, le finestre, le scale che paiono iniziare soltanto, pochi gradini che conducono a spazi presupposti che sfuggono ad ogni logica architettonica, e capisci che il paese non è così lontano come sembra percependo le sue dimensioni da quell’ altezza.
Il paese è lì dabbasso, ma è piccolo anche dopo che hai imboccato la stretta e ripida scalinata e hai attraversato l’imponente arco e ad un tratto in quella piazza, fra quelle case ti ci ritrovi nel mezzo. Il paese tutto sembra venirti incontro, in una fuga prospettica di cui tu sei il centro, ovunque tu ti muova.
Atrani è così, un paese dagli spazi minimi, dove ogni vita possibile se ne sta compressa, angusta, ridotta all’essenziale, che ci vai a fare in un posto così? eppure fra questi suoi vuoti aerei continui a sentirti, in qualche modo, sollevare: dall’abbuffata di parole a cui ti costringi ogni giorno, dalla leziosità con cui esse dividono il Bene e il Male, dal Monumento che producono di se stesse per sfuggire al tempo, e ridimensioni così quello che credevi l’intricato labirinto del tuo essere, riproporzioni quello che all’improvviso ti si mostra così com’è: il frutto di un’economia dell’anima dove tutto si affastella come in una polverosa soffitta, senza soluzione, e solo perché non può fare diversamente, come ti insegna l’intimità dei panni stesi laddove il sole prorompe dal buio degli archi, che ci vai a fare in un paese così? dovresti andarci solo per questo, per imparare l’equilibrio precario con cui vai costruendo i tuoi ricordi, ci vai per imparare dalla finestra furbetta, che vedi farsi spazio nella verticalità dei muri, l’imperfezione delle storie , e dietro la quale passano vite indicibili tanto sono piccole e qualsiasi come lo è la tua, cose che esistono o che fra oscurità e luce cercano di resistere per quello che sono, e forse per questo che riesci anche ad immaginarle vere.

S’i fosse foco

Negli ultimi anni il flagello del punteruolo rosso ha modificato i contorni di un paesaggio a cui ero abituata fin da bambina: le grandi palme, intorno alle quali tutti qui abbiamo giocato a rincorrerci, sono quasi del tutto state cancellate dai profili dei paesi, delle colline, dei giardini. La loro anima che così intimamente si accostava a all’architettura della Costiera ricostruendo un oriente senza sponde  e senza confini, quest’anima è stata divorata. Sono rimasti ovunque tetri monconi, sterili. È stato triste vedere uno ad uno i pennacchi verdi appassire, è stato triste il giorno in cui uno ad uno i tronchi centenari sono stati fatti a pezzi. Le scintille legnose schizzavano sotto la lama della motosega saturando l’aria di marcio. È stato triste.
Un giorno anche un pino marittimo se n’è andato. Al suo posto c’è quel che ne resta, un cerchio infisso nel selciato, un vassoio piatto e vuoto, senza ombra. Da allora guardo quelli che restano sempre con la paura che qualcuno possa un giorno decidere che quei rami fieri che galleggiano nell’aria costituiscano un pericolo, perché no magari per la fantasia.
E poi d’estate gli incendi. La Costiera ogni anno cede alle fiamme ettari del suo manto selvaggio. Dell’armonioso disordine dei suoi arbusti e del verde declinato in ogni sua sfumatura resta niente, o tuttalpiù stecchi anneriti e fumanti e roccia ferita e brulla. La Costa tutta, sul finire della stagione calda,  appare come una splendida bestia dal manto piagato dalla peste, morente nell’indifferenza,   e così si consuma ogni anno: nei fumi e le fiamme dei  doli, maturando nuovi dissesti per nutrire, come in una catena di Sant’Antonio, nuovi mala affari.

Oggi su La Stampa è uscito un articolo firmato da Antonio Scurati. Forse non ne ho condiviso completamente i toni ridondanti, ma ne ho apprezzata la volontà di farsi voce in difesa di un territorio gravemente colpito e che molti forse conoscono solo attraverso stereotipi ma, che nella sua bellezza unica e poliedrica, racchiude il seme di un malinconico destino che è dei paesi tutti, e soprattutto di un Sud che vede ardere non solo i suoi boschi ma con questi anche la propria identità, rapinata da chi cinicamente assolda i piromani stessi. Sì, l’odore di bruciato che si sente non è solo quello dei giardini in fiamme.